Sembra seguire alla lettera quell’imperativo categorico che il giovane poeta praghese Rilke apprese dal grande scultore August Rodin, quando per un breve periodo fu il suo segretario: Il faut travailler, toujours travailler (Bisogna lavorare, sempre lavorare). L’arte è anche fatica, esercizio continuo, concentrazione sul proprio lavoro. Per dirla in maniera più spartana: per ottenere dei progressi, avanzare nella propria ricerca artistica, è necessario essere sempre sul pezzo! Ecco perché quel piccolo monolocale è il luogo in cui Uber trascorre la maggior parte delle proprie giornate, facendo ciò che gli riesce meglio: dipinge, o meglio scolpisce su una superficie bidimensionale. Uber è infatti un pittore che crea togliendo piuttosto che aggiungendo.
Egli non lavora mai su tele intonse, bensì su fondi materici e già utilizzati. La sua è una ricerca: asportando strati di colore trova degli abbozzi di figure al di sotto della materia e si lascia guidare dalle forme che man mano emergono da sotto la superficie più esterna. Intravede qui il profilo di un volto, là la curva di una schiena, lì il contorno di un occhio e allora si fa strada tra quelle linee sinuose fino a fare emergere dal fondo delle donne enigmatiche, cariche di mistero e di un fascino ineffabile. Sembra quasi che sorgano dai tempi dei tempi, come fossero degli archetipi femminili, che ci suggeriscono qualcosa sul mistero della donna. Ci invitano a farci delle domande, a porci dei dubbi sulla loro origine, sul loro carattere, sugli intrighi che annodano le loro esistenze. Come ogni vera opera d’arte, le tele di Uber non danno risposte, bensì pongono quesiti, incitano alla riflessione, alla introspezione psicologica. La grazia di queste donne dipinte è sospesa, sembra non risentire della forza di gravità. Il movimento è quasi assente: è piuttosto una stasi che però fa muovere il pensiero, dà vita ad una cinesi della mente.
Le figure femminili che si stagliano davanti allo spettatore vivono totalmente indifferenti al suo sguardo indagatore, che vaga in molteplici direzioni, da destra a sinistra, dall’alto al basso, dall’interno all’esterno del quadro, che non ha mai un confine, ma straborda dalla tela e fa sì che la narrazione possa continuare all’infinito. Queste donne si lasciano guardare, come i protagonisti e le comparse di un film muto di cui lo spettatore è invitato a costruire una trama. Un intreccio che può essere continuamente rimaneggiato perché le storie che potrebbero svilupparsi dalla compresenza sullo stesso sfondo di queste figure femminili potrebbero essere tante. Orditi di vite dalle quali lo spettatore è escluso: può solo osservare dall’esterno, ma non riesce a scambiare nemmeno uno sguardo fugace con queste arcane figure, che sembrano ambire ad uno stato nirvanico. Storie che appartengono, come dice Uber, alla dimensione dell’improbabile, che è comunque un campo del possibile. «Sono storie improbabili quelle che mi diverto a dipingere, ma non impossibili!» Improbabili come i reggicalze intessuti dai biglietti con cui al supermercato ci si mette in fila in attesa del proprio turno, che rivestendo le cosce di una donna dal tubino e dal copricapo nero, esercitano una seduzione incredibile.
Qualsiasi oggetto, qualsiasi materiale, anche quelli che nella nostra quotidianità frenetica e distratta, più o meno tutti utilizziamo e poi gettiamo (garze, carta velina, cartoncino, biglietti del supermercato, ritagli di pizzi…), senza nemmeno accorgerci che li abbiamo tenuti tra le mani, possono trasformarsi in qualcosa di originale e seducente se ricontestualizzati e di conseguenza risemantizzati in un’opera d’arte. Uber non snobba nulla: i suoi quadri fan venire voglia di toccarli, di farne esperienza non solo visiva ma anche tattile. Essi sono estremamente materici, sono dei collage di diverse tecniche e differenti materiali. Ecco allora che composizioni di chiara reminiscenza classica o moderna diventano qualcosa di difficilmente collocabile in una qualsiasi corrente artistica, eppure valide in qualsiasi luogo ed in ogni tempo.
In un certo senso nelle opere di Uber spazio e tempo sono dimensioni dilatate, sospese, eterotopie ed eterocronie. Ciò che prende vita sulle tele evoca sempre qualcosa che non c’è, che è già oltre, che si può intuire, ma non afferrare interamente. Del resto quello che affascina di queste donne non è quello che dicono, ma piuttosto quello che non dicono.
Valentina Ottoboni
22 agosto 2017